Il cane

Giuseppe Pugliese, dicembre 2024

Quel cretino si era messo a fare il cane. Così, all’improvviso su di un marciapiede nei pressi del centro.
Un posto piuttosto frequentato, di grande passaggio.
Qualcuno si era messo a ridere, soprattutto quando aveva alzato la gamba vicino al semaforo e mimato la pipì. Un paio di ragazzotti si erano messi a dirgli “Su bello su, vieni qui!” e lui li aveva seguiti per un po’ trotterellando al loro fianco. Un bimbo aveva tirato una pallina e lui era corso a riprenderla. Qualcun’altro, pensando che fosse solo un fantasioso mendicante, gli aveva anche lanciato delle monetine che però lui aveva assolutamente disdegnato. Si era poi messo ad abbaiare piuttosto insistentemente e una signora anziana e un po’ malmessa si era spaventata e aveva attirato l’attenzione di un vigile che ce l’aveva messa tutta a convincerlo a rialzarsi e fare la persona seria, ma aveva rinunciato quando il presunto cane, peggio ancora!, si era disteso sulla pancia per farsi fare i grattini. Del resto non ravvisava alcun reato nel comportamento, per quanto strambo e pure forse lievemente molesto, di quel mentecatto.
La coda era l’unico elemento che davvero mancasse nella sua esibizione che passò da divertente a fastidiosa nel giro di pochi minuti. E prese a degenerare quando un tipo uscito da un minimarket gli lanciò accanto un pezzo di wurstel che lui cominciò a lappare avidamente.
Fu solo allora che mi riscossi da quello stato di attonita incredulità in cui ero piombato.

Quel ragazzo era da anni uno dei miei migliori amici, sempre pronto allo scherzo e alla buffonata, pure troppo talvolta per la verità, ma cosa gli avesse preso in quel frangente non era spiegabile, non era un atteggiamento neppure lontanamente giustificabile, pur alla luce di alcuni suoi lievi eccessi del passato.
Mi ci avvicinai rapidamente e semplicemente, con qualche carezza sulla testa e alcune paroline dolci sussurategli all’orecchio sottovoce, lo convinsi a seguirmi sino a casa sua, che per fortuna conoscevo bene e non era troppo distante da lì.
Citofonai. Mi aprirono il cancello senza problemi e lo feci entrare in ascensore. Giunti al suo piano, il quarto per la precisione, non mi fu facilissimo convincerlo a venirne fuori. Nel mentre sua madre aveva aperto la porta di casa e osservava la scena stupefatta.
Cercai di spiegarle rapidamente il tutto e fu solo con l’aiuto di un biscotto che riuscimmo a farlo entrare. Divoratolo, si accomodò sul tappeto, fece un grosso sbadiglio e poco dopo dormiva della grossa.
Con quel cane era entrata in quella casa anche la disperazione.
Fu rintracciato subito il padre e chiamato d’urgenza il medico di famiglia che si fece rispiegare da me l’accaduto e che vedendolo comunque dormire sereno, saporitamente, decise di non agire subito, ma di aspettarne il risveglio. Magari sarebbe venuto fuori da solo da quel sogno sconveniente.
Andai via desolato, dichiarandomi a disposizione per qualsiasi cosa potessi mai fare. Lasciai a tutti il mio numero di cellulare.

Non ebbi notizie per alcuni giorni e allora mi decisi a chiamare io, ricevendo in cambio solo laconiche ed evasive risposte. Non insistetti.
L’ho rivisto poi casualmente in un bar alcuni mesi dopo.
Mi ha salutato distrattamente, come si fa con qualcuno di cui ti ricordi vagamente ma di cui non sapresti, in effetti, neppure dire il nome e così ti limiti  a salutarlo con un lieve sorriso e un veloce gesto di mano alzata, che maschera l’imbarazzo che stai provando.
No, non mi ci sono avvicinato.
O c’era qualcosa che ancora gli ottenebrava la mente, magari per via di qualche medicinale, qualche tranquillante che gli somministravano, oppure forse voleva dimenticare quell’episodio e rimuovere chi ricordava vi avesse attivamente preso parte.
Forse non era davvero possibile archiviare il tutto sotto la voce “grossa stupidata” e allora pensai fosse meglio lasciar perdere e non rincorrere chi ormai non s’appartiene più. 

Immagine di freepik</a>

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