Sarà
Giuseppe Pugliese, dicembre 2024
“Sarà capitato anche a voi, di avere una musica in testa…”
Beh sì, immagino di sì.
Tutti ci svegliamo prima o poi con una canzone che ci rimbomba nella testa e che non riusciamo a mandar via; sono sicuro che sia accaduto anche a voi.
Il problema è che non siamo noi a scegliere il motivetto che ci accompagnerà, se ci va bene, per i primi pochi minuti della giornata per poi abbandonarci o essere sostituito da altri nel corso delle nostre incombenze quotidiane.
No, sono canzoni che riemergono dal passato, e il cui risuonare può sorprenderci nel bene come nel male.
E io di male devo averne fatto davvero tanto perché “Se mi lasci non vale” non è una canzone qualunque, ma un castigo di Dio. Ebbene di alzarmi abbandonando le piacevoli coltri con in testa “la valigia sul letto è quela di un lungo viagio” ebbene questo non me lo sarei mai aspettato.
Una emersione dal mio subconscio quanto meno imbarazzante.
È vero, solitamente mi sveglio con canzoni italiane della mia anta. Tristezza, Che cosa hai messo nel caffé, La banda, si sono succedute nel tempo alternandosi a tante altre che sembra proprio che rivengano su così, a casaccio
Ora, dalle canzoni che ho citato, avrete capito che ho un’età e che sono cresciuto con Canzonissima, Settevoci, Senza rete in diretta dagli studi di Napoli e ovviamente il Festival di Sanremo come massima espressione della musica nostrana.
Poi, da adolescente, me ne sono allontanato passando per i Rokes, i Ribelli, le Orme, sino ad addivenire agli Osanna, alla PFM e al Banco e ad ascoltare tutto il rock possibile e immaginabile, che amo indistintamente dalle sue versioni più soft (il country rock ad esempio) a quelle decisamente metal.
E questo percorso di crescita lo reclamo come un vanto.
Epperò La spada nel cuore o, meglio ancora, Cuore matto mi colpiscono sempre come un maglio. Ah… il grande Little Tony, consentitemi il gioco di parole, l’idolo dei miei otto anni.
D’accordo, lo riconosco, ho gusti musicali alquanto discutibili.
Tuttavia, non potevo farla passare liscia a Julio e ai suoi Tozzi consimili. E ho deciso su due piedi di auto affrancarmi da tali fastidiose reminiscenze.
Ho stabilito un cammino di redenzione. Uno scalare costante di assunzione di musica leggera, anzi leggerissima, come si fa con la droga o con qualche medicinale pesante. Si è trattato di creare un percorso di rieducazione diretto ad ottenere un risveglio con in mente qualcosa di più consono all’immagine che ho di me stesso.
Ho cominciato col mettere sul piatto Pino Daniele, Lucio Dalla e De Gregori per una prima breve fase di disintossicazione e non sapete la gioia che ho provato quando, dopo una decina di giorni di questo trattamento, mi sono svegliato con un bel 4 marzo 1943 in testa.
“Dice ch’era un bell’uomo e veniva, veniva dal mare…” l’ho canticchiata con fierezza tutto il giorno. Ho capito di essere sulla buona strada.
Sono passato gradatamente a Bob Dylan, Cat Stevens e James Taylor, indi mi sono diretto al rock d’autore ed è stato tutto un divenire, un riscoprire e persino azzardare qualche sguaiato passo di danza.
E però non è che la situazione mattutina migliorasse poi tanto.
Probabilmente l’attenzione che riponevo al mio risveglio mi ha inibito, frenato le mie ambizioni e per un po’ ho avute levatacce silenti. Era come se la mia radio interna avesse perso ogni sintonizzazione. Ho provato ad ascoltare musica in cuffia sino a notte fonda. Ed anche ad aprirmi all’attuale panorama musicale, ma ho richiuso subito la porta.
Ho ricercato vecchie puntate di Rai stereo notte. Ho fatto di tutto. E una mattina è tornata: “Zum Zum Zum, Zum Zum Zum” con l’orchestra diretta dal mitico Bruno Canfora.
Sinceramente me ne sono rallegrato. E l’ho cantata a squarciagola.
Può darsi sia un mio ulteriore, non certo l’unico, segno di demenza, ma sono stato contento per tutto il giorno.
Ed è ripreso l’alternarsi mattutino di canzoni di più o meno bassa lega. “E guardo il mondo da un oblò mi annoio un po’… “Gianna Gianna Gianna”… “Che fretta c’era maledetta primavera, che fretta c’era se fa male solo a me”.
Una caduta che ho voluto fortemente definire sentimentale, quasi romantica. Una sorta di personale Sturm and Drang, se mi consentite l’esagerazione.
Sono tornato ad essere un juke box di quelli a cinquanta lire una canzone e cento per tre. Con le hit del momento così gettonate che dopo decine di ascolti i dischi si graffiavano e non si sentiva altro che parole distorte e suoni indistinti.
E quando una mattina mi sono tirato su con “Se qualcuno cercasse di te” lato B di “A chi” di Fausto Leali e i Novelty ho capito di aver fallito. Ero ricascato nel tunnel. Ci ero caduto di nuovo a piè pari. Mi sono reso conto che stavo perdendo gli ultimi residui di dignità.
Ho chiesto una settimana di ferie. Mi sono rinchiuso in casa.
Mi sono bombardato la testa con il rock più duro e spinto che conoscessi, mi sono immerso in atmosfere pink floydiane, genesissime e yessongs. Non mi sono fatto mancare manco i Popul Vuh e gli Iron Butterfly di In a gadda da vida.
Ragazzi guardate che ci sono andato davvero giù pesante!
Eppure, qualcosa non ha funzionato.
Perché risvegliarmi la domenica successiva con “Kiss me, Kiss me Licia” mi ha gettato davvero nello sconforto.
* * *
Alla fine, mi sono deciso e mi sono rivolto a uno psichiatra. Mi ha detto che non è poi così grave. Che potrò recuperare una certa lucidità mentale se applicherò coscienziosamente i suoi consigli.
Ma mentre andavo via e lui mi accompagnava premurosamente all’uscita l’ho sentito accennare sottovoce “Cicale, cicale, cicale”. Mi stava sfottendo, ne sono sicuro.
Ho perso il controllo e l’ho strangolato. Ha rantolato, invocato pietà e squadernato tutto il repertorio delle ovvietà: ho famiglia, posso pagarti, fallo per i miei figli.
Ma io per sovrastare le sue implorazioni cantavo che “il bassotto poliziotto scoprirà la verità”.
Che poi non era difficile perché io non mi sono mosso da lì. Non ho neanche provato a scappare. Conosco i miei limiti.
Immagine di freepik</a>