Frammenti dal buio

Luca Vitali, gennaio 2024

Chissà perché da mezzo secolo non sono più tornato qui, è strano rivedere i luoghi della giovinezza con gli occhi di un vecchio.
Di sicuro quella era la casa di nonno Gaetano e nonna Santina (non ricordo se il nome era quello, Santina, io la chiamavo nonna). È affacciata proprio sulla strada provinciale, e ora mi sembra tanto piccola e tanto squallida. È vuota, gli intonaci sono crepati e spenti, farciti da scritte antiche e ingarbugliate.
All’angolo lì sotto indovino l’insegna del vecchio ciclista, si chiamava Bartolo. E ricordo anche l’aquiletta Bianchi color mattone comprata lì da nonno per il mio compleanno. Una bicicletta da donna per un ragazzino di dieci anni, chissà perché. Magari perché era pieghevole e si caricava bene in macchina, o forse costava poco, comunque a quel tempo non mi importava.
Quello accanto è il mitico stradone, il passaggio obbligato, la linea di confine che ci portava dal mondo della famiglia a quello degli amici e dei giochi. Ogni volta lo percorrevo in uno stato di euforia, avevo già in testa le avventure e i piaceri che stavo per vivere, ma anche le merende e gli affetti che avevo appena lasciato.
Lo stradone ora è tutto lì, piccolo piccolo, meno di venti metri dalla casa dei nonni fino alla vecchia caserma dei carabinieri che non c’è più. Ricordo anche un nome, Alfonso, il figlio del maresciallo, ma lo chiamavamo Alfonsino, perché era piccolo e gracile.
Tutti scomparsi i nomi degli altri compagni di allora, forse perché un po’ ne avevo paura.
Dietro la caserma c’era un prato grande, grandissimo, incolto e sassoso. Lì si giocava a pallone e quelli litigavano ferocemente, mentre io accettavo tutto senza protestare, anche di rimanere spesso tra due sassi a fare il portiere. Qualcuno faceva le squadre e dettava le regole, noi altri accettavano tutto passivamente, perché quel qualcuno era il capo riconosciuto, e la democrazia non era importante allora.
Cammino fino al prato grandissimo e trovo solo un fazzoletto di verde, ancora incolto e sassoso, coperto da rifiuti che non c’erano cinquanta anni fa. Improvviso, mi torna alla mente un episodio violento, una ribellione al capo. Una mossa scorretta, gli sguardi che si scontrano, la paura che prende il sopravvento, la fuga del ribelle sul prato e l’inseguimento con sgambetto finale, la caduta rovinosa sui sassi e il viso sporco di sangue. L’ordine era stato ristabilito.
Non c’erano femmine con noi in quei pomeriggi estivi, solo un branco di maschietti alla ricerca di eroismi facili. Ma poi, in fin dei conti c’erano anche loro, smemorato che sono.
Erano molto più grandi di noi e quasi sempre nude. E sempre di carta. Accuratamente nascoste dal capo, in un cespuglio c’erano due copie del mitico Caballero – oggi potrebbe essere un testo alternativo nella scuola media senza suscitare scalpori -.
A un certo punto del pomeriggio la partita di calcio si interrompeva e il piccolo gruppo si spostava compatto per pochi metri, il capo entrava nel cespuglio – solo lui sapeva dove cercare – e ne usciva orgoglioso con l’oggetto del desiderio proibito. E Caballero passava di mano in mano, tra gli sguardi eccitati e gli opportuni commenti rozzi. Ricordo ancora un titolo, Le ragazze di Amsterdam, e la fantasia che volava verso l’esotico paradiso del peccato proibito. Dopo qualche minuto la cerimonia si interrompeva, Caballero tornava nel cespuglio e il calcio litigioso riprendeva il sopravvento.
Eravamo dei cavernicoli. Forse lo siamo ancora, non so, dei cavernicoli vecchi.
Un’ultima occhiata alla casa – ma come fa a essere così piccola – e mi tornano alla memoria quelle notti estive: io dormo nella stanza dei nonni, un lettino piccolo e sgangherato accanto al loro lettone. Nonno Gaetano russa forte e io non riesco a dormire. Sulla Tiburtina lì accanto il rumore del traffico continua pesante, le luci dei fari si muovono veloci sul soffitto una dopo l’altra, incessanti, io le guardo ipnotizzato e penso ‘ma come faccio a dormire con nonno che russa, il rumore e tutte queste luci che corrono sul soffitto?’. E mi addormento.
Il passato dovrebbe rimanere lontano e dimenticato. Oggi mi ci sono avvicinato troppo.

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